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Pericolo inquinamento: il grave fenomeno delle isole di plastica

isole di plastica

Mentre l’attenzione di tutti, politici, media e cittadini, appare rivolta ai cambiamenti climatici, al riscaldamento degli oceani e ai processi di desertificazione individuandone nelle emissioni di anidride carbonica di origine antropica come la principale causa, poco o niente si dice sul non meno grave problema dell’accumulo dei rifiuti negli oceani ed in particolare su quelli che come la plastica non sono biodegradabili. Le isole di plastica

Isole di plastica

Quanti sanno che nelle acque degli Oceani Pacifico ed Atlantico, nel tratto compreso tra California e Arcipelago Hawaiano galleggia uno dei più grandi ammassi di rifiuti del pianeta?

Si tratta della Great Pacific Garbage Patch, grande chiazza di immondizia del Pacifico, “scoperta” nel 1997 dal velista Charles Moore che durante una gara in barca dalle Hawaii alla California, allorché attraversò il North Pacific Subtropical Gyre, notò che la propria imbarcazione navigava in una massa enorme di pezzi di plastica.

Estensione

L’estensione di quella che è ormai comunemente chiamata come l’Isola dei rifiuti non è nota con precisione: le stime vanno da 700.000 km² fino a più di 10 milioni di km²: come dire da un’area più grande della Penisola iberica a un’area più estesa della superficie degli Stati Uniti, ovvero tra lo 0,41% e il 5,6% dell’Oceano Pacifico. 

Secondo le stime della Marina degli Stati Uniti  e dell’Algalita Marine Research Foundation l’ammontare complessivo della sola plastica dell’area raggiunge un totale di 3 milioni di tonnellate. 

L’oceanografo americano Charles Moore ritiene verosimile che l’area possa contenere fino a 100 milioni di tonnellate di detriti.

Formazione

Il Great Pacific Garbage Patch comprende anche il Western Garbage Patch, zona di immondizia occidentale, situata nei pressi del Giappone, e l’Eastern Garbage Patch, zona di immondizia orientale, individuata tra le Hawaii e la California.

Great Pacific Garbage Patch
Great Pacific Garbage Patch

I detriti che compongono l’isola dei rifiuti vengono trasportati dalle correnti marine e si concentrano nell’area in cui le acque calde del Sud Pacifico si incontrano con quelle fredde provenienti dal Circolo Polare Artico (North Pacific Subtropical Convergence Zone). In quest’area, l’azione del Vortice Subtropicale del Pacifico, o grande corrente oceanica a forma di vortice, mantiene insieme i detriti rifiuti, creando un’area di quasi 20 milioni di km quadrati di estensione.

Pare che la costituzione di queste isole di immondizia  sia iniziata a partire dagli anni 80, a seguito del continuo inquinamento da parte dell’uomo e dall’azione della corrente oceanica chiamata Vortice subtropicale del Nord Pacifico (North Pacific Subtropical Gyre), caratterizzata  da un particolare movimento a spirale in senso orario.

Composizione

E’ sconcertante il fatto che l’Isola dei rifiuti è costituita interamente da materiale non biodegradabile, però, al contrario di quanto si potrebbe pensare,  soltanto per una minima parte, l’8%, risulta essere formata  di materiale sintetico di consumo, come la plastica; la quasi totalità della massa galleggiante è formata da attrezzatura da pesca abbandonata, quali reti da pesca, corde, distanziatori per allevamento di ostriche, trappole e ceste varie, di cui almeno 1/5 proveniente dallo tsunami che devastò il Giappone nel 2011. 

I rifiuti che formano l’isola sembrano provenire da 12 diverse nazioni e avere almeno 9 lingue distinte, stando alle etichette ritrovate.

Business

Se da un canto l’Isola dei rifiuti è ormai una vera e propria località, due intraprendenti pubblicitari hanno depositato la richiesta di riconoscimento con il nome di Trash Isles (Isola dei rifiuti) ed hanno addirittura nominato cittadino dell’isola l’ex vice presidente statunitense Al Gore, da sempre impegnato nella lotta contro il cambiamento climatico e l’inquinamento del pianeta.

Pericoli Le isole di plastica

Mentre i rifiuti galleggianti di origine biologica sono spontaneamente sottoposti a biodegradazione, nelle zone oceaniche interessate dagli ammassi di rifiuti si stanno accumulando enormi quantità di materiali non biodegradabili come plastica e rottami marini. Anziché biodegradarsi, la plastica si fotodegrada, ovvero si disintegra in pezzi sempre più piccoli fino alle dimensioni dei polimeri che la compongono; nondimeno, questi ultimi restano plastica e la loro biodegradazione resta comunque molto difficile. La fotodegradazione della plastica può produrre inquinamento da policlorofenili (PCB).

L’Isola dei rifiuti rappresenta una trappola mortale in cui annualmente si impigliano almeno 100 mila animali, tra cui foche e balene. 

Molti animali come tartarughe e uccelli muoiono a causa dell’inquinamento da plastica, soprattutto a causa della sua ingestione che può provocare occlusioni o perforamento dell’apparato digestivo.[19]

Nonostante la bassa percentuale, anche i rifiuti di plastica risultano pericolosi, in quanto si frammentano in microplastiche e mettono in pericolo l’ecosistema marino. 

Le microplastiche infatti vengono ingerite da svariate specie di animali marini. 

Secondo Greenpeace, sono almeno 170 gli animali marini che ingeriscono frammenti plastici, subendo lesioni o intossicazioni. In più, finendo sulle nostre tavole, mettono in pericolo anche la salute dell’uomo.

I frammenti di plastica ricoprono la superficie del mare, rendendola secondo il National Geographic simile ad una “torbida zuppa”. 

I dati non sono confortanti: secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, Unep, il Great Pacific Garbage Patch starebbe crescendo così in fretta da poter essere presto visibile dallo spazio.

Il galleggiamento e la forma delle particelle plastiche, che hanno un comportamento idrostatico simile a quello del plancton, ne induce l’ingestione da parte degli animali planctofagi, e ciò causa l’introduzione di plastica nella catena alimentare. In alcuni campioni di acqua marina prelevati nel 2001, il rapporto tra la quantità di plastica e quella dello zooplancton, la vita animale dominante dell’area, era superiore a sei parti di plastica per ogni parte di zooplancton.

Nuovo pericoloso ecosistema

Le conseguenze, dirette e indirette, per l’ambiente non sono stati ancora studiate in maniera approfondita e appaiono di difficile valutazione in considerazione della notevole estensione del fenomeno e delle scale temporali associate, ma indubbiamente sono da ritenere importanti.

Si pensa con preoccupazione soprattutto alle alte concentrazioni di policlorofenili, noti con la sigla PCB. Si tratta di composti organici altamente tossici e probabilmente anche cancerogeni che, in considerazione del loro aspetto filamentoso che li rende molto simili al plancton, possono essere ingeriti dagli organismi marini ed entrare nella catena alimentare.

In aggiunta è da ricordare anche che la microplastica rappresenta un substrato favorevole alla proliferazione di popolazioni microbiche di elementi patogeni. 

Più in generale, è preoccupante la presenza di rifiuti pervasivi e tossici, in un ecosistema fondamentale, durante periodi di decine o centinaia di anni. 

Le isole di spazzatura costituiscono quindi un nuovo e pericoloso ecosistema dove la plastica, a causa della sua superficie idrofobica, presenta una maggior resistenza alla degradazione e si presta a essere ricoperta da strati di colonie microbiche è colonizzata da circa mille forme diverse di organismi eterotrofi, autotrofi, predatori e simbionti, tra cui diatomee e batteri, alcuni dei quali apparentemente in grado di degradare la materia plastica e gli idrocarburi

In questi ammassi di rifiuti si trovano anche agenti potenzialmente patogeni, come batteri del genere vibrio, alcuni dei quali sono responsabili di varie patologie umane, che vanno da semplici forme diarroiche (Vibrio parahaemolyticus) e infezioni più o meno gravi di ferite cutanee (Vibrio alginolyticus e Vibrio vulnificus) sino al pericoloso colera provocato dal Vibrio cholera.

Fondali Le isole di plastica

Se la superficie accumula detriti, anche i fondali non si trovano in una situazione migliore.

Il 70% dei detriti marini infatti precipitano e ricoprono il fondo dell’oceano. 

Secondo l’Unep, United Nations Environment Programme, organo istituzionale delle Nazioni Unite con compiti specifici sui temi della tutela ambientale e dell’utilizzo sostenibile delle risorse naturali, anche le plastiche biodegradabili corrono il rischio di non decomporsi sul fondo, in quanto in quell’ambiente non arriva la luce del sole e la temperatura è molto più bassa rispetto a quella necessaria per avviare la decomposizione.

Nel frattempo si stanno formando altri mondezzai galleggianti. 

Tra questi, il North Atlantic Garbage Patch, scoperto per la prima volta nel 1972, è un ammasso che si estende per quasi 4 milioni di km² e ricco di oltre 200mila detriti per chilometro quadrato. 

Situato tra l’America del Sud e l’Africa meridionale, Il South Atlantic Garbage Patch, con “appena” una superficie di oltre 1 milione di km² è forse la più “piccola” tra le isole di plastica.

Poco più di un decennio fa, nell’oceano Indiano centrale è stato segnalato l’Indian Ocean Garbage Patch, ammasso di rifiuti a concentrazione di detriti variabile. 

Anche nel mare di Barents, nel nord della Norvegia nelle vicinanze del circolo polare artico, è segnalato un modesto accumulo di detriti plastici, l’Arctic Garbage Patch, provenienti dall’Europa e dalla costa orientale del Nord America.

Finalmente, pare che molti Stati si stiano muovendo per cercare di invertire la rotta.

Buon ultima in ordine di tempo è l’Unione Europea che ha proposto una normativa urgente sull’uso della plastica e sullo smaltimento dei rifiuti. 

Non sappiamo quando vedremo i risultati di queste nuove norme, ma una cosa è certa: la situazione del Great Pacific Garbage Patch ci dice che il tempo stringe, sempre di più.

Fonti

 

Scritto da Angelo Messina

già Professore Ordinario di Zoologia all'Università di Catania

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